Sarebbe bello poterci confrontare sulle buone prassi dello “smartworking” o “lavoro agile” che dir si voglia. Sarebbe bello fare un po’ di sano benchmarking o quanto meno un’analisi di alcune “buone prassi”. (cfr. Settimana del Lavoro Agile)
Ahimè l’esigenza di sfatare alcune pericolose convinzioni prevale, perché troppo spesso mancano ancora cultura, metodologie e strumenti che permettano di fare un uso proficuo di queste modalità.
Purtroppo la pratica dello smartworking è talvolta vittima di preclusioni e loghi comuni che difficilmente – a mio avviso – trovano spiegazione, se non nella carenza da parte dell’azienda/organizzazione di cultura, metodologie e strumenti.
È per esempio il caso di quei dirigenti d’azienda (per fortuna assai rari) che vorrebbero avere tutti i loro dipendenti all’interno di un unico open space e quindi tutti “facilmente controllabili”. Dirigenti d’azienda molto più attenti a controllare gli orari di timbratura sui cartellini piuttosto che a valutare l’effettiva produttività dei propri collaboratori, la loro capacità di risolvere problemi o di garantire elevati livelli di qualità, creatività e puntualità nei servizi erogati dall’azienda. Dirigenti di azienda che rischiano di andare in paranoia quando i loro collaboratori sono a casa, come se ciò fosse sinonimo di "fregatura” o “imbroglio”, manco se dietro il lavoro a distanza vi fosse chi se ne approfitta per passare l’aspirapolvere in casa o preparare il ragout.
Trovo preoccupanti e soprattutto anacronistiche, tanto per fare un altro esempio, le posizioni del Ministro Brunetta che vede lo smartworking come fumo negli occhi e dichiara: “Basta fare finta di lavorare”. Non voglio dare nessuna connotazione politica al mio discorso. Né voglio soffermarmi sul fatto che il Ministro, affermando questo, stia di fatto sia offendendo una fetta consistente dei “suoi” dipendenti, sia dichiarando al mondo la sua stessa incapacità (l’incapacità della Pubblica Amministrazione che rappresenta) di organizzare il lavoro a distanza dei propri dipendenti. Reputo molto pericoloso che alcune Pubbliche Amministrazioni abbiano deciso di muoversi in direzione opposta rispetto a quello che tutti gli altri (le grandi aziende prima, le medie aziende e le piccole aziende poi) hanno iniziato a fare ben prima della pandemia, ovvero adottare metodologie e strumenti di lavoro più flessibili, capaci di eliminare i vincoli di spazio e di tempo migliorando al contempo la produttività e la qualità del lavoro, nonché proponendo un modello organizzativo più sostenibile.
O gli altri sono tutti dei pirla che detestano aumentare gli utili e i dividendi, oppure forse vale la pena fermarsi, capire cosa succede altrove, tirare le giuste considerazioni ed agire di conseguenza.
Si pensi ad esempio alla nuova sede di Lavazza: luminosa, innovativa e flessibile, creata per non avere confini rigidi: spazi di lavoro che non sembrano nemmeno essere uffici e sono una ode agli scambi di opinione e alle contaminazioni di pensieri ed idee. Il tutto condito di orari di lavoro flessibili e un abbondante ricorso alle pratiche di smartworking.
Idem dicasi per il nuovo Headquarters Prysmian realizzato a Milano. Anche in questo caso basta entrare nella nuova sede per capirne subito la filosofia: la presenza di aree verdi permette una elevata qualità di vita ai lavoratori che trascorrono comunque buona parte del tempo lavorativo al di fuori dei perimetro dell’edifico, facendo anche in questo caso uso abbondante e sapiente della pratica dello smartworking.
Gli uffici di Linkedin, distribuiti in tutto il mondo, sono un altro esempio di spazi lavorativi ideati e pensati per assecondare le esigenze lavorative e ricreative dei dipendenti.
Si pensi infine, tanto per fare un altro esempio, anche al caso Mattel, l’azienda di giocattoli (seconda al mondo per fatturato dietro a Lego), celebre per aver ideato e prodotto tra i propri giochi Barbie, gli automodelli Hot Wheels e le carte da gioco UNO. Organizzazione liquida, smart working e activity based working sono alcune delle novità con cui Mattel sta operando al proprio interno per andare incontro alle nuove esigenze organizzative.
Insomma, se il mondo profit si muove adottando via via sempre più modelli organizzativi flessibili che incentivano il co-working e lo smartworking... probabilmente qualche vantaggio c’è. Anche per il datore di lavoro, per chi deve dividere utili e desidera che i propri dipendenti producano al massimo. Altro che “Basta fare finta di lavorare”.
SMARTWORKING - Buone prassi
È tuttavia opportuno e doveroso da parte mia ricordare che ci sono anche realtà ed organizzazioni che da qualche mese stanno lavorando per supportare l’acquisizione di competenze, strumenti e metodologie a supporto dello smartworking. Mi piace fra questi citare Apindustria Brescia, l’associazione di imprenditori che dal 1962 rappresenta le PMI del territorio con lo scopo di assistere e tutelare gli interessi morali, sindacali ed economici delle aziende iscritte.
Nell’autunno del 2019 (quattro mesi prima che scoppiasse la pandemia Covid 19 – Coronavisurs) proprio con Apindustria ho avuto la fortuna e l’onore di progettare e poi tenere un Master sullo smartworking e sulla digitalizzazione dei processi produttivi.
Un corso di 80 ore (10 giornate) durante le quali ho potuto con i corsisti ragionare di competenze, metodologie e strumenti digitali a supporto del lavoro collaborativo.
Il tutto proprio alla vigilia della pandemia scoppiata nel 2020. Da cui, ne deriva una considerazione: o ci abbiamo visto lontano…. Oppure … porto sfiga 😊
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